Da stranieri a nuovi italiani: come cambia l’immigrazione

Fondazione Leone Moressa
XV rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione
Ottobre 2025


 

Sintesi

La storia dell’immigrazione dell’Italia è certamente più recente rispetto a quella degli altri grandi paesi europei, specialmente quelli caratterizzati da un passato coloniale, come Francia e Regno Unito. Tuttavia, possiamo affermare che l’immigrazione in Italia ha superato ormai la prima fase di espansione, entrando ora in una fase di stabilizzazione attorno al 9% della popolazione, con ritmi di crescita nettamente inferiori a quelli del primo decennio del XXI secolo. Le comunità straniere più numerose, infatti, sono quelle presenti in Italia da almeno quindici o vent’anni: Romania (1,1 milioni di residenti), Albania (416 mila), Marocco (412 mila), Cina (309 mila).

Riconoscere questa fase di stabilizzazione è importante per comprendere come gli immigrati di oggi non sono gli stessi di quindici o venti anni fa e, di conseguenza, che gli strumenti di governance vanno adeguati alla situazione reale.
Innanzitutto, i nuovi ingressi sono diminuiti nel loro complesso e profondamente mutati per quanto riguarda la tipologia: meno arrivi per lavoro, più ingressi per motivi umanitari (nel periodo 2016-2017 soprattutto dall’Africa, nel 2022-2023 dall’Ucraina) e più ricongiungimenti familiari (da parte di chi era arrivato per lavoro dieci o quindici anni prima).

Peraltro, bisogna sottolineare che le definizioni normative di chi è considerato “straniero” o di chi può richiedere la cittadinanza italiana hanno ricadute significative anche sulla “contabilità” dell’immigrazione e quindi sulla percezione da parte dell’opinione pubblica. Basti pensare che circa un quinto dei 5,3 milioni di stranieri residenti è rappresentato da minori nati in Italia da genitori immigrati, che diventerebbero “automaticamente” italiani con l’introduzione di uno ius soli puro. Dall’altra parte, “escono” dal conteggio degli stranieri coloro i quali acquisiscono la cittadinanza italiana, regolamentata dalla Legge n. 91 del 1992.
Proprio le acquisizioni di cittadinanza sono uno dei fenomeni più significativi degli ultimi anni, avendo superato la quota dei 200 mila nel 2022 e nel 2023. Rientrano in questi casi fattispecie molto diverse: le naturalizzazioni per residenza (dopo dieci anni in Italia, che si sarebbero ridotti a cinque in caso di approvazione del referendum di giugno) e i loro figli; le naturalizzazioni per ius soli (richieste dopo il compimento dei 18 anni da chi è nato in Italia) e quelle dei discendenti degli emigrati italiani all’estero.
Tutto ciò, come detto, incide sulla percezione dell’immigrazione in Italia: se gli “stranieri” residenti sono 5,3 milioni, il numero di “nati all’estero” arriva a 6,7 milioni, 11,3% della popolazione. Ecco, quindi, che il criterio utilizzato per considerare i residenti “stranieri” o “italiani” (che deriva ovviamente dalla normativa vigente) determina una variazione non da poco.

Primi 10 paesi d’origine di stranieri e nati all’estero in Italia, 2024
Stranieri per Paese di cittadinanza
Paese Residenti
Romania 1.073.196
Albania 416.229
Marocco 412.346
Cina 308.984
Ucraina 273.484
Bangladesh 192.678
India 170.880
Egitto 161.551
Pakistan 159.332
Filippine 156.642
Totale 5.253.658
 
Nati all’estero per Paese di nascita
Paese Residenti
Romania 898.293
Albania 557.064
Marocco 489.033
Cina 236.861
Ucraina 297.032
Bangladesh 188.171
India 190.338
Egitto 170.028
Pakistan 162.413
Filippine 147.284
Totale 6.673.604

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat.

 

A fare da sfondo a queste dinamiche rimane il contesto demografico del Paese, su cui si era concentrata l’edizione precedente del Rapporto (il cosiddetto “inverno demografico”). L’Italia, infatti vive ormai da anni una sempre più bassa natalità (nel 2024 si è registrato il minimo storico di 1,18 figli per donna) e un progressivo invecchiamento della popolazione, con la conseguente diminuzione della componente giovane. Questo fenomeno è stato ribattezzato “degiovanimento” dal demografo Alessandro Rosina, che ha curato un paragrafo del Rapporto in cui sottolinea cause ed effetti della crisi demografica.

In questo scenario, il contributo demografico della componente immigrata rimane positivo, con un tasso di natalità maggiore (9,9 nati ogni mille abitanti tra gli stranieri e 6,1 tra gli italiani) e un tasso di mortalità minore (2,1 morti tra gli stranieri e 12,3 tra gli italiani).
In particolare, nel 2023 tra gli stranieri si sono registrati 51.447 nati e 10.743 morti, con un saldo naturale positivo per circa 40 mila unità. Tra gli italiani, invece, le morti sono state 660.322, il doppio delle nascite con 328.443 decessi. Pertanto, il saldo naturale è negativo per oltre 330 mila unità.
Tuttavia, confrontando i dati del 2023 con quelli del 2019, si nota che anche il contributo demografico della popolazione immigrata è in calo. 
Ad esempio, i nati stranieri sono diminuiti di oltre dieci mila unità (-18%), mentre i morti sono aumentati di circa tre mila unità (+45%). Anche i tassi di natalità e mortalità sono peggiorati: la natalità è passata da 12,5 a 9,9 nati ogni mille abitanti. La mortalità è aumentata, passando da 1,5 a 2,1 morti per mille abitanti.
Ciò dipende da diversi fattori. Innanzitutto, la natalità è legata agli stili di vita, per cui risente di un adattamento al paese di residenza. In altri termini, sebbene le famiglie immigrate continuino a fare più figli rispetto a quelle italiane, tendono a farne meno di quanti ne farebbero in patria. 
Inoltre, l’aumento delle naturalizzazioni ha ridotto (da un punto di vista statistico) la platea dei genitori “stranieri” e, di conseguenza, il numero dei nati stranieri, andando invece ad incrementare leggermente i “nati italiani”.
Sul fronte della mortalità, gli stranieri in Italia stanno progressivamente invecchiando, per cui aumenta – pur lentamente – la mortalità. Infatti, pur mantenendo un’età media ancora molto più bassa di quella degli italiani, bisogna considerare che l’immigrazione in Italia è ormai “matura”, composta prevalentemente da persone giunte per lavoro prima del 2010, quindi oltre quindici anni fa.

Oltre alle dinamiche naturali, l’altro elemento che determina le variazioni demografiche è costituito dalle migrazioni. In questo caso, vengono considerate le iscrizioni e le cancellazioni anagrafiche, per gli italiani e per gli stranieri. Il saldo migratorio degli stranieri rimane positivo (+333.991) e di fatto è la componente che contribuisce maggiormente ad arginare il calo demografico in Italia. Nel 2023, infatti, i nuovi arrivi di immigrati dall’estero sono stati oltre 378 mila. Per quanto riguarda gli italiani, le emigrazioni rimangono sopra quota 100 mila, seppur in calo rispetto al 2019 (-7%). Nello specifico, il 58,6% è di età compresa tra 18 e 39 anni. Questa componente è in lieve aumento negli ultimi dieci anni: nel 2014 e nel 2015 rappresentava circa la metà delle cancellazioni anagrafiche, mentre nell’ultimo anno si avvicina al 60%.
Anche i movimenti in entrata di cittadini italiani sono in calo (-10%), per cui il saldo migratorio degli Italiani rimane negativo per oltre 50 mila unità.

 

Saldo demografico (naturale e migratorio), 2019-2023

 

  2019 2020 2021 2022 2023
Stranieri 262.573 203.416 226.440 329.026 374.695
Italiani -323.633 -451.199 -367.483 -389.974 -384.650
Totale -61.060 -247.783 -141.043 -60.948 -9.955

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat.

Oltre all’analisi delle dinamiche demografiche, il cuore del Rapporto rimane, come ogni anno, il contributo economico che la componente immigrata apporta al sistema economico in Italia.
Sulla base di fonti statistiche ufficiali e con il supporto di approfondimenti e contributi istituzionali di prestigio, quali OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), Confartigianato e Banca d’Italia, il tema viene esaminato da vari punti di vista.
Gli occupati stranieri in Italia sono 2,5 milioni (10,5% del totale), e arrivano a 3,7 milioni se consideriamo i nati all’estero (15,2%). Questa seconda definizione sembra più consona al conteggio degli “immigrati”, dato che include chi ha acquisito la cittadinanza ed esclude le “seconde generazioni”, che in buona parte sono ancora fuori dal mercato del lavoro.

In Italia, l’occupazione straniera si distingue nettamente da quella autoctona per la maggiore concentrazione in mansioni a bassa qualificazione, con una rilevante presenza in professioni meno specializzate e spesso caratterizzate da un elevato livello di precarietà. Se, infatti, il 39,6% degli occupati italiani è impiegato in professioni qualificate o tecniche, in questa categoria solo il 9,1% degli occupati sono stranieri. Al contrario, i lavoratori stranieri sono principalmente impiegati tra operai e artigiani (31,7%) e nelle professioni meno qualificate (29,4%).
La distribuzione del lavoro evidenzia quindi una segmentazione marcata del mercato occupazionale: su 100 addetti a professioni poco qualificate, ben 30 sono stranieri, mentre nel caso delle professioni più qualificate, la presenza straniera è estremamente ridotta, con soli 2,6 lavoratori stranieri su 100 (Fig. 4.2). Tale fenomeno suggerisce che, per il momento, l'occupazione straniera svolga una funzione complementare rispetto a quella italiana, occupando spazi nel mercato del lavoro che non vengono completamente colmati dalla forza lavoro locale.

 

Distribuzione degli occupati (15+ anni) per cittadinanza e profilo professionale, 2024

 

Profilo Italiani Stranieri
Professioni qualificate e tecniche 39,6% 9,1%
Impiegati e addetti a commercio e servizi 30,4% 29,8%
Operai e artigiani 21,0% 31,7%
Personale non qualificato 8,0% 29,4%
Forze armate 1,1% 0,0%
Totale 100,0% 100,0%

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat.

Nonostante nel mercato del lavoro si riscontri ancora una forte “rigidità” in termini di settori e mansioni, agli occupati stranieri si può attribuire la produzione di Valore Aggiunto pari a 177 miliardi di euro, con un’incidenza pari al 9% del totale.
Osservando la distribuzione settoriale del valore aggiunto prodotto dai lavoratori stranieri, si nota una forte concentrazione nel comparto dei servizi, settore nel quale oltre un milione di stranieri trovano occupazione. Tuttavia, un’analisi dettagliata dell’incidenza relativa nei diversi settori economici mostra come la presenza degli stranieri risulta più rilevante in alcune aree specifiche dell’economia nazionale.
L’agricoltura registra la quota più elevata, con circa il 18% del valore aggiunto del settore è attribuibile alla forza lavoro straniera. Seguono l’edilizia, con un’incidenza pari al 16,4%, e il comparto degli alberghi e della ristorazione, dove i lavoratori immigrati contribuiscono per circa il 12,5% del valore aggiunto totale. Questi dati suggeriscono come l’economia italiana si avvalga in modo sostanziale del contributo dei migranti in settori caratterizzati da una domanda strutturale di manodopera, spesso in condizioni di elevata precarietà e bassa qualificazione.

Valore aggiunto generato dagli occupati stranieri (2024)

 

Settore Occupati immigrati (migliaia) Valore aggiunto (mln €) % V.A. stranieri su V.A. totale
Servizi 1.064 84.883 7,6%
Manifattura 484 37.814 10,4%
Costruzioni 272 18.278 16,4%
Commercio 244 17.529 7,6%
Alberghi e ristoranti 285 10.672 12,5%
Agricoltura 164 7.975 18,0%
Totale 2.514 177.151 9,0%

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat.

 

Dal punto di vista fiscale, la struttura demografica degli stranieri in Italia (età media 36,1 anni, contro 47,1 degli Italiani) fa sì che essi incidano molto poco sulla spesa pubblica (mediamente il 3,5%), scendendo addirittura sotto l’1% nella voce “pensioni”.
Confrontando le voci di entrata e uscita per l’anno d’imposta 2023, il saldo tra costi e benefici dell’immigrazione è pertanto positivo per le casse dello Stato, per un valore di +1,2 miliardi di euro.
È evidente, dunque, che la bassa età media e la forte concentrazione nella fascia d’età lavorativa siano i fattori determinanti di tutta l’analisi. Sebbene l’incidenza sia significativa sulla spesa per istruzione (data la presenza di oltre l’11% di alunni stranieri) e su alcune voci di welfare assistenziale (supera il 17% nella spesa per famiglia e figli, disoccupazione, malattia), l’immigrazione incide complessivamente appena il 3,5% sulla spesa pubblica italiana. Nelle due voci di spesa pubblica più consistenti, sanità e pensioni, l’incidenza della popolazione immigrata è molto bassa: meno del 5% sulla sanità e addirittura meno dell’1% sulle pensioni.
Sul fronte delle entrate, nonostante esse “coprano” le uscite, va però fatta una riflessione sul contributo potenziale ancora inespresso. Infatti, l’Irpef versata dagli immigrati è appena il 2,3% del totale, a causa della ben nota segmentazione del mercato del lavoro. La concentrazione nelle fasce di reddito più basse incide poi anche sulla propensione al consumo e quindi sulle imposte legate ad essi. Il gettito IVA “generato” dagli immigrati è infatti appena il 3% del totale, e risultano limitate anche le imposte legate alla casa e alle automobili.
Pur sottolineando nuovamente il progressivo aumento della ricchezza degli immigrati, le disparità sono ancora molto forti. Il progressivo aumento del cosiddetto “ceto medio” immigrato, dunque, non solo è auspicabile dal punto di vista dell’inclusione e del benessere delle famiglie straniere, ma anche in una prospettiva di sviluppo complessivo del Paese.

Stima delle entrate e delle uscite dovute alla presenza straniera, 2023 (costo medio)

ENTRATE

Voce Mld €
IRPEF 5,1
IVA 4,2
Consumi (tabacchi, lotterie, tasse auto, carburanti, canone TV) 3,8
Consumi locali (IMU, TASI, gas ed energia) 1,1
Permessi di soggiorno e acquisizioni di cittadinanza 0,4
IRAP 1,1
Contributi sociali netti 25,5
Totale 41,1

Saldo +1,2 mld €

 

USCITE

Voce Mld €
Sanità 6,3
Scuola 7,3
Servizi sociali locali ed edilizia pubblica 1,6
Giustizia e Sicurezza 3,4
Accoglienza e integrazione (quote Min. Interno e Min. Lavoro) 2,1
Protezione sociale (malattia e invalidità, vecchiaia e superstiti, famiglia e figli, disoccupazione) 19,2
Totale 39,9

 

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati MEF - Dipartimento delle Finanze, Istat e Inps

 

In continua crescita, negli ultimi anni, gli imprenditori nati all’estero, segno di un processo di integrazione e investimento sul territorio. Nel 2024 erano 787 mila (10,6% del totale), e negli ultimi dieci anni hanno arginato la diminuzione di imprenditori autoctoni (-5,7% nati in Italia, +24,4% nati all’estero).

Va infine considerato il ruolo che gli immigrati svolgono per lo sviluppo dei paesi d’origine, principalmente (ma non solo) attraverso i flussi di denaro inviati alle famiglie: nel 2024 sono stati 8,3 miliardi, destinati in larga misura a soddisfare bisogni primari quali sanità e istruzione, senza contare le rimesse “invisibili” come invii a mano o sotto altre forme.

In definitiva, le analisi del Rapporto annuale dimostrano che l’immigrazione, a patto che sia gestita e regolata, offre un contributo positivo a livello demografico, economico e fiscale. Essa non può certamente essere l’unica risposta alla recessione demografica, ma quantomeno contribuisce ad arginarla. Tuttavia, il potenziale dell’immigrazione in Italia è ancora largamente inespresso, limitato da una scarsa mobilità sociale e da una generalizzata difficoltà di valorizzare talenti e competenze. Una maggiore valorizzazione, invece, porterebbe un maggiore contributo al PIL, maggiori consumi e maggiori entrate per le casse dello Stato.